Inizia American Horror story: Cult ed è subito fobia. Ecco la recensione dell’episodio 7×01.
[Attenzione! L’articolo può contenere spoiler.]
Ci sono incubi da cui è difficile svegliarsi. Intrappolati in un’altra realtà, messi a nudo dalla paura, sopravviviamo con l’unico conforto che presto si dissolveranno alle luci dell’alba. Esistono, però, incubi che sono ancora lì ad aspettarci una volta aperti gli occhi. I peggiori.
La settima stagione di “American Horror Story” non poteva avere un contenuto più dirompente e provocatorio di quello scelto: la “fobia” Donald Trump, che ha colpito metà della popolazione americana e non solo.
Il genere horror si fa, quindi, portavoce dei disagi di un’epoca e dei timori di una nazione. Lo fa ancora una volta, poiché nessun altro genere come quello dell’orrore può dipingere in maniera così vivida il tempo della crisi e della trasformazione.
Ryan Murphy avanza su una strada già precedentemente intrapresa con “Roanoke”. Infatti, attraverso il mix di mockumentary, programma televisivo e reality show (le forme odierne più gettonate d’intrattenimento televisivo), aveva raccontato l’incontro/scontro tra il moderno e qualcosa di più antico e primitivo. Qualcosa che non si lascia domare dai like, dagli indici di ascolto e da quella gara di popolarità che è diventato il mondo. Con “Cult”, però, Murphy fa un passo ulteriore, osa di più ed inizia là dove tutto il mondo è cambiato. Il giorno delle elezioni. Trump, tuttavia, è solo un trampolino di lancio, una “scusa” per parlare di qualcosa di più profondo e oscuro: l’Oggi, con le sue contraddizioni e spinose preoccupazioni. Siamo da tempo scissi tra un mondo che sta correndo vertiginosamente verso il domani e un altro che vorrebbe fermarsi e tornare indietro. Due mondi irruenti con tutti i loro pro e contro.
Dopo un anno di campagne, raccolte di firme, manifestazioni e fiumi di parole, le elezioni avvengono e hanno tutto il sapore di un fallimento. Da quell’istante, ci dice Murphy, tutto è diverso. L’incubo è reale. La paura è reale. L’avvento del presidente è percepito, con le sue intolleranze, irruenze ed estremismi, come un nuovo 11 settembre da Ally (una Sarah Paulson davvero eccezionale). Lesbica, sposata con una donna, madre in una famiglia omogenitoriale, è emblema di tutto ciò che la nuova corrente politica vorrebbe smontare e piegare al silenzio. Politicamente attiva e legata a doppio filo al suo Paese, Ally rappresenta metà della Nazione, quella che è terrorizzata da ciò che potrebbe fare Trump.
È in questo marasma, quindi, che le sue malattie fobiche esplodono. Coulrofobia. Claustrofobia. Emofobia. Tripofobia (la fobia dei buchi, moderna paura “nata nel web” e riconosciuta ufficialmente dalla psicologia nel 2005). Così come il Paese cade nel caos, anche in lei divampa il tumulto. Inoltre, giocando sul fatto che la paura non risveglia semplicemente i sensi, mettendoli in massima allerta, ma può alterali, ad un certo punto scaturisce persino il dubbio che quel che Ally vede sia solo frutto della sua immaginazione, lasciandoci in bilico tra incerta realtà e vera paura.
Dall’altra parte abbiamo, invece, i sostenitori del caos, i clown, capitanati da Evan Peters, che con Kai Anderson aggiunge una nuova pietra miliare tra i personaggi da lui interpretati nella serie AHS. E se non sono pazzi, disagiati e instabili, allora non li vogliamo!
Kai non è tanto a sostegno del nuovo presidente, però, quanto della confusione che egli ha contribuito a portare, caos e paura che possono così essere cavalcati e domati per guidare e controllare la massa. La paura cambia forma a seconda del punto di vista dei personaggi ed è percepita, quindi, da Kai come strumento per raddrizzare e sfruttare.
Caos. Violenza. Fobia. Tutto ciò che è emblema dei nostri insicuri tempi moderni. Benvenuti nel nuovo “American Horror Story” ed il messaggio è molto chiaro: non stiamo più vedendo una serie horror, noi ci siamo già dentro.