Le origini segrete di Kai. Ecco la recensione di “American Horror story: Cult” episodio 7×05

[Attenzione! L’articolo può contenere spoiler.]

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La verità sa bene dove nascondersi: in parole non dette, in sguardi celati, in sospiri velati. Ne sa qualcosa Ivy che a sorpresa si rivela parte della setta dei Clown del Caos capitanati da Kai Anderson. Dopo le parole affettuose di Ally sulla propria compagna, è perturbante scoprire, infatti, quanto la donna fosse cieca sulla sua reale condizione familiare. Ivy, delusa dal proprio Paese da cui non si sente più rappresentata, scarica su Ally tutta la sua delusione, stigmatizzandola per non aver votato Hilary Clinton. La prima impressione che vedeva Ivy semplicemente come una vittima dei deliri della moglie in realtà è completamente errata, in quanto lei stessa sta fomentando tale follia. Tuttavia, una scelta del genere deve avere radici ben più profonde alle spalle, ma quali?

Perché Ivy?! Perché?! Sembravi la più sana là dentro!

La morale è dura quanto chiara: non ci si può fidare davvero di nessuno. Ryan Murphy mette sul piatto un altro tasto dolente della società, ovvero la fiducia. Se la verità è così multiforme e facile da segretare, come si può aver fede nell’altro? A cosa bisogna aggrapparsi? Kai ha compreso da tempo che la stretta morsa dell’omicidio è un buon modo per legare i suoi adepti. Tutti complici nel soggiogare la città con la paura, ogni membro della setta non può tirarsi indietro. Proprio per questo senza alcuno scrupolo, ciascuno di loro conficca un chiodo nella testa di più RJ, il loro anello più debole. L’atteggiamento di Ivy è esemplificante di tale concetto: per quanto ripugnante e sbagliato sia, domani potrebbe toccare a lei essere giustiziata.

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La morte, tuttavia, non è sufficiente. È necessaria una condivisione di valori per legittimare tali barbarici atti. I Clown del Caos vedono, infatti, nel loro agire un fine più alto che eleva anche loro al di sopra degli altri, mietendo chiunque si opponga al loro volere. “Cult” è probabilmente la stagione più ambiziosa di American Horror Story. Si prende tutti i rischi nel raccontare le sue crude provocazioni senza fronzoli (e senza mai annoiare), mettendo lo spettatore davanti a verità allarmanti sulla nostra società.

Sì, me la sto facendo un po’ sotto in effetti…

Così assistiamo alla nascita di una pericolosa setta di assassini. Così restiamo allibiti a come sia facile qualcosa manipolare gli altri e la loro fiducia. Beverly Hope, però, che in fatto di sincerità e manipolazione ne sa qualcosa in quanto giornalista, non ci sta al “gioco” di Kai e pretende di conoscerne la vera storia. Qualcosa in Kai si è inevitabilmente spezzato il giorno in cui avviene l’omicidio-suicidio dei genitori, ma il fulcro dei suoi caotici ideali ha inizio da una scelta: evitare le conseguenze sociali della morte dei suoi cari, per non perdere i propri privilegi e ciò che si sono guadagnati (e vogliono raggiungere) lui e i suoi fratelli. Una scelta egoista per “compensare” la scelta egoista dei loro genitori. Dinnanzi a quella realtà, Kai non può che piangere.

Alla fine, la verità esiste. È solo difficile trovarla, ben nascosta sotto la carne.

Queste gioie violente hanno violenta fine. [William Shakespeare]
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