David Yarovesky ci racconta di un super-eroe davvero spaventoso. La recensione di Brightburn – L’angelo del male

[Attenzione la recensione contiene spoiler]

Kansas, 2006. I coniugi Tori e Kyle Breyer (rispettivamente David Denman ed Elizabeth Banks) desiderano un bambino da tempo ma non c’è proprio verso di averlo. Come tutte le persone disperate finiscono per pregare Dio di aiutarli e in effetti qualcuno dal cielo, alla fine sembra ascoltarli e volerli accontentare. Una notte, mentre i due si apprestano all’ennesimo tentativo tradizionale di concepimento, un’esplosione li interrompe. Escono da casa e ai margini di un cratere fumante c’è un neonato ancora integro che piange. I coniugi Breyer accolgono l’infante come fosse loro. Ovviamente sorvolano sulla reale provenienza. Dichiarano di averlo trovato sotto un albero e fanno di tutto per ottenere l’adozione. Ci riescono, ma dodici anni dopo capiranno il tragico errore commesso…

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Brightburn è un horror in famiglia, sia dentro che fuori. Prodotto da James Gunn (noto per la sceneggiatura de L’alba dei morti viventi, ma soprattutto per essere il regista di Guardiani della Galassia) e scritto da suo fratello Brian in coppia con il cugino Mark, il film è diretto dal fido David Yarovesky, collaudato dalla famiglia Gunn per il corto Guardian Of The Galaxy: Inferno e in precedenza al lavoro con l’attore Sean, altro fratello di James, nel suo primo film The Hive (2014).  Sperando che non vi siate persi in mezzo a tutti questi nomi, proseguiamo con l’analisi del film, che del nucleo famigliare finisce per fare poltiglie, in senso letterale.

Brightburn è un film che ha tutti i requisiti per conquistare ampie platee ma con al suo interno un vaccino di sadismo e cattiveria. Il film si spinge ben oltre i rassicuranti orrori da salotto, sfiorando la vecchia poetica splatter punk (che se ricordate, al disgusto aggiungeva qualcosa di molto più disturbante e ribelle)
Dalla trama verrebbe subito in mente il cult del 1999 di Brian Yuzna, Progeny – Il figlio degli alieni. Anche lì una coppia ha problemi concezionali ed è aiutata da ehm… lo spazio. In questo caso però la questione è un po’ diversa. Non possiamo parlare di sostituzione Finneyana (Ultracorpi docet) ma di un’invasione/possessione pedo-calittica alla Ira Levin (Rosemary’s Baby, certo ma anche I ragazzi venuti dal Brasile). 

Il personaggio del piccolo Brandon (interpretato dal bravo Jackson A. Dunn) in effetti è un po’ un minestrone di vecchi prototipi. Al contrario di Damien o Regan McNeil lui però manifesta i suoi poteri senza smettere di essere un ragazzino. Non lascia mai completamente il posto all’entità aliena istintiva. Un esempio è la reiterazione del logo infantile, simile a una runa, fatto con le due B del nome e del cognome. Il bimbo stesso l’ha concepito pasticciando su un quaderno. E lui lo usa come firma per ogni luogo dove ha ucciso e distrutto. Questo desiderio fanciullesco di fare il fico usando un simbolo autoreferenziale esplica i rimandi puerili di un pre-adolescente, capace di tradurre tutto il progressivo cambiamento soprannaturale che subisce, come fosse la trama di un fumetto. Se invece che a dodici anni, la trasformazione fosse avvenuta a cinquanta, probabilmente Brightburn avrebbe parlato di un serial killer alla Freddy Krueger. 

Ma è un bimbo, quindi ecco il mantello e la maschera. Tremate cattivi, Super Kid sta arrivando. Chi sono però gli avversari? Beh, chiunque si frapponga tra Brandon e ciò che vuole. I professori, i bulli a scuola, la ragazza che non ci sta e ovviamente mamma e papà. 

A dire il vero, tutti noi, all’età del protagonista abbiamo cercato al nostro interno i segnali di qualche super-potere. Tutti abbiamo sperato di essere super-eroi. Brandon vive questa classica fantasia ma la cosa trova conferme autentiche e non lo diverte, anzi, accentua il senso di distanza ed estraneità al gruppo. Non c’è molta eccitazione dopo il primo volo o dopo la prima prova di forza prodigiosa. Il ragazzino è perplesso più che altro. Con l’adolescenza la realtà si rivela sempre più vischiosa e indecifrabile. E quello che ci hanno insegnato i nostri genitori si ridimensiona da legge universale indiscutibile a semplice opinione diversa dalla nostra. Finiamo per chiederci magari se siamo stati adottati.

Se ci pensate, Brightburn mette in atto una serie di capovolgimenti. Per prima cosa il ruolo onnipotente che in una famiglia spetta al genitore, gigante detentore del bene e del male, qui se lo prende il figlio. I genitori tremano quando lui urla: “mi avete mentito!” e non dovrebbe essere tanto diversa la percezione di un ragazzino, quando è il padre a urlargli contro per qualcosa che ha combinato. La “bizzosità” narcisistica di Brandon fa anche pensare a un altro indimenticabile dispo-bimbo del cinema fantastico: l’Anthony, dell’episodio diretto da Joe Dante in Twilight Zone The Movie. 

In apparenza la famiglia di Brandon è normale. C’è un padre agricoltore forte e magnanimo. La mamma è più ribelle, artistoide, rockettara ma protettiva e sensibile ai disagi del figlio. Di sicuro è lei quella che ha ancora con Brandon un rapporto giocoso e infantile. All’inizio del film infatti vediamo i due che si divertono a cercarsi e in seguito, il nascondino diventa una specie di raccordo per tutto il proseguo del film ma con ragionevoli aumenti di tensione e drammaticità. 

Nel conflitto tra il bambino e i suoi genitori, i fratelli Dunn e Yarovesky mettono in scena un balletto edipico un po’ datato che sgamba su un vecchio adagio sinfonico di sensi di colpa. Quando Brandon inizia a manifestare segni sempre più inquietanti della sua diversità, i Breyer sanno il motivo e devono fare i conti con il proprio egoismo e l’infelicità di certe scelte. Hanno mentito al mondo per tenerlo e soprattutto hanno mentito al figlio. La mamma però difende Brandon, rigetta decisa le accuse di perversità che arrivano dalla scuola e rimanda a casa la polizia, quando viene per un sopralluogo. Il papà invece riconosce nel bambino il lupo arcaico che minaccia il suo pollaio e decide di agire in altro modo. Del resto la trasformazione del piccolo è licantropica. E la licantropia è quel mito che basa tutto sul tenere a freno o liberare la bestia sessuale che c’è in noi. Brandon subisce il cambiamento ormonale di un qualsiasi adolescente, salvo manifestarlo in modo inquietante; sotto il materasso sua madre trova ritagli sexy e illustrazioni spinte di un manuale anatomico. Il papà resta perplesso a vedere ritagli di viscere e corpi sezionati invece di qualche copia sgualcita di playboy, ma prova a spiegare al pargolo, nonostante le difficoltà di comunicazione tra i due siano in rapido peggioramento, che la sua curiosità verso le donne è normale, e se ha voglia di toccarsi il… pene può farlo. Il ragazzino accoglie di buon grado il consiglio paterno e lascia subito andare le sue smanie sessuali verso una compagnuccia di classe con disastrose conseguenze. Da lì c’è lo slancio definitivo a una trasformazione predatoria già impellente.  Non è un caso che il padre sgami immediatamente la responsabilità del figlio riguardo il pollaio massacrato e nemmeno che i dissidio tra i due si protraggano per tutto il film attorno a un fucile da caccia. 

La madre tratta Brandon come un cucciolo esotico, una tigre via via sempre più accecata dai propri istinti. Tornando al discorso dei capovolgimenti, il piccolo sembra una versione capitombolata del vecchio Mowgli di Kipling. Là era un umano allevato dai lupi e qui un lupo (alieno) raccolto e accudito dagli umani. La mamma continua a cercarlo, durante le loro reiterate sessioni a nascondino, con un fischio, proprio come si farebbe con un bravo cane o un animale più grosso e potenzialmente pericoloso ma cresciuto in ambiente domestico. Il padre invece lo fissa con sospetto e lo tiene sotto-tiro, aspettando il suo primo morso.

Yarovesky insiste parecchio sull’arredo sentimentale: ci mostra fotografie “inquadrucciate” ovunque. Ogni momento è buono per ricordarci un attimo di felicità famigliare prima del grande stravolgimento. Nulla di male e in fondo il subbuglio che provano dei genitori quando il figlio inizia la pubertà, non è tanto dissimile da quello dei Breyer. Fino a dieci anni le cose sembrano gestibili e rassicuranti. Nel giro di qualche mese però le cose cambiano in modo vertiginoso. Un bambino dolce e affettuoso assume le fattezze di un perfetto estraneo cupo e aggressivo che non vuole più condividere niente con i propri genitori. E così capita che il padre si metta a piangere guardando i vecchi lavoretti del figlio, ai tempi dell’asilo, mentre la madre, quando visita la stanza di Brandon è come se attraversasse una scena del crimine e non più la cameretta del suo pupattolo. Ma al di là della comprensibile malinconia di mamma e papà, Brandon è solo un adolescente complicato. Pensa al sesso, fatica a socializzare. È sempre più assorto durante le lezioni ed è inguaribilmente nerd. È in fissa con i super-eroi e li disegna su un quaderno. Poi ha interessi molto particolari. Per esempio ne sa a pacchi di vespe. Una delle sue preferite è la Polistes sulcifer. Un parassita sociale che non essendo in grado di costruire un nido da sola, obbliga altre vespe a occuparsi della sua prole. Come? Si insedia in un nido e sottomette la regina originale. Grazie all’invio di segnali chimici, fa credere alle altre operaie che lei stessa è la regina di sempre e le povere sgobbone accudiscono la figliolanza della parassitaria, senza accorgersene.  

Questo potrebbe essere un manifesto programmatico di ciò che Brandon sia venuto a fare sulla terra ma le cose sono più in stile Hitler.

Non sappiamo se Brightburn diventerà nel tempo un cult ma di sicuro ha già acceso un focherello di culto intorno a una canzone. Ci riferiamo al brano che Brandon usa per corteggiare la sua amichetta di scuola in una versione home invasione del Tempo delle mele. Si intitola “Send Her To Me”, un pezzo di un certo Wayne Chance di cui non si sa granché. C’è chi ipotizza un alter-ego di Elvis, dietro quel nome. In ogni caso il brano suscita inquietudine e ironia insieme. Le parole cantate danno voce a un giovane amante smanioso di avere una ragazza che possa “ricevere” il suo amore. Brandon usa il pezzo per fare atmosfera e questo non può che suscitare ironia e un po’ di voltastomaco. Curiosità: il brano si trova anche nella stagione due di Fargo.

Curiosità: Un meteorite è caduto sul serio in Kansas, nel 2006, ma non sappiamo se sia o meno una coincidenza con la data scelta dagli sceneggiatori per il film o se Brightburn tragga spunto da quell’episodio reale. 

Non perdete i titoli di coda. C’è un vecchio amico che vuole salutarvi.

Titolo: L’angelo del male – Brightburn
Titolo originaleBrightburn
RegiaDavid Yarovesky
AttoriElizabeth BanksDavid DenmanJackson A. Dunn
Durata: 90 minuti
Anno: 2019
Paese: USA

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