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Drag Me To Fest 4: recensioni psicologiche dei film

Drag Me To Fest 4 recensione psicologiche
Drag Me To Fest 4 recensione psicologiche

Le recensioni psicologiche dei film del Drag Me To Fest 4 curate da Psicocinè

Quanto hanno in comune la narrazione dell’orrore con la psicologia? Moltissimo, tanto che il filosofo Mark Fisher è arrivato a scrivere che “la psicoanalisi appartiene al genere horror”. Da psicologo a cui piace analizzare ciò che si trova oltre la superficie del reale, condivido le riflessioni che la visione dei corti proiettati durante la quarta edizione del Drag Me To Fest – che contribuisco ad organizzare – ha suscitato in me.

Noi, Nessuna Persona Plurale (Riccardo Tampoia e Diego Fossati, Italia, 2024)

“Vivere in simbiosi” è un’affermazione iperbolica spesso utilizzata per descrivere relazioni quasi fusionali tra persone, caratterizzate da immediate comprensioni reciproche (a volte senza nemmeno la necessità della parola) e da un forte, e apparentemente indistruttibile, legame. Il termine “simbiosi”, infatti, deriva dal greco syn-biosis, letteralmente vivere insieme, convivenza.
Quando la convivenza diventa però necessaria per la sicurezza personale, quando il legame con l’altro è l’unica fonte di autostima, emergono difficoltà che possono arrivare a riversarsi in condotte distruttive (e/o autodistruttive). Secondo lo psicoanalista José Bleger, “la simbiosi è una stretta inter-dipendenza fra due o più persone che si complementano per mantenere sotto controllo, immobilizzati e in qualche misura appagati, i bisogni delle parti più immature della personalità”.

In Noi, Nessuna Persona Plurale di Riccardo Tampoia e Diego Fossati, il rapporto di un ragazzo con se stesso – e con il suo piacere – è corroborato da un organo genitale delocalizzato che richiede un soddisfacimento continuo. Nel momento in cui si insinua la possibilità del rapporto con un’altra persona, il legame simbiotico è messo a dura prova, e sarà necessario prendere una decisione. Ogni relazione con l’Altro richiede infatti, nella sua fase iniziale, un lavoro di ricollocamento dei bisogni e delle modalità di interazione verso di sé e verso il mondo. Essere capaci di affrontare questa fase conduce a un nuovo modo di essere-nel-mondo e alla buona riuscita della stessa relazione, che può prevedere l’esigenza di una trasformazione di parti di sé che non dovrebbe mai andare incontro ad autoannientamento.

Playing God (Matteo Burani, Italia, 2024)

Il rapporto tra creatore e creatura è sempre un rapporto che ha a che fare con il potere e con la sofferenza, col timore che chi ci ha generati possa non averci capiti (la delusione/disillusione adolescenziale verso i genitori), con la paura di essere “uno dei tanti” piuttosto che “uno tra tanti”, di non essere unici.

Playing God di Matteo Burani sfiora abilmente queste tematiche, mostrandoci che il “libro della Creazione” ha un Uroboro (classica raffigurazione archetipica del serpente che si morde la coda) in copertina. Perché la vita è sì eterno ritorno (F. Nietzsche), ma nella direzione dell’individuazione (C. G. Jung), nel cercare di diventare davvero se stessi, integrando le esperienze e le influenze esterne per ricollegarsi al vero nucleo originario di quello che si è.

E vale la pena farlo, nonostante il dolore causato dallo sradicamento da una situazione di costrizione, di immobilità. Perdere la presunta perfezione è solo il primo passo per acquisire, per la prima volta, realmente se stessi.

Olivia (Byron Rink, Italia, 2024)

Un interessante bias cognitivo (una distorsione del pensiero, di solito utile a prendere velocemente una decisione) di cui si è iniziato a discutere in questo secolo è la plant blindness (“cecità alle piante”, in italiano). Essa consiste nella tendenza, da parte dell’essere umano, a non notare o a ignorare le specie vegetali che gli vivono attorno. Una delle motivazioni culturali che contribuiscono a questo fenomeno potrebbe risiedere nella percezione umana di una diminuita importanza del ruolo delle piante nella vita di tutti i giorni. Di conseguenza, un potenziale effetto di questo bias può essere il concreto abbassamento della disponibilità di fondi economici atti alla conservazione del mondo vegetale, alla ricerca e all’istruzione in questo campo.

D’altra parte, però, il mondo vegetale è oggi massicciamente sfruttato dall’umanità per ricavarne quanto più denaro possibile. Olivia di Byron Rink mostra chiaramente come la natura, quando viene utilizzata impropriamente – non solo, quindi, per mantenere la giusta sussistenza umana – si indebolisce fino a farci rendere conto della sua importanza. Così come è avvenuto negli ultimi anni con gli ulivi pugliesi distrutti dal batterio Xylella.

Dovremmo capire, quindi, quanto cercare di salvare il pianeta significhi cercare di salvare l’umanità perché la Terra, alla fine, sopravviverà comunque. E per farlo potremmo cercare di avvicinarci nuovamente all’Anima Mundi, quel sentire le parti del mondo intimamente connesse con noi stessi e tra loro, tanto cara allo psicoanalista junghiano James Hillman. Egli, infatti, credeva che gran parte dei problemi della psiche derivasse dall’allontanamento da questo sentimento. Perché prenderci cura del mondo vegetale significa curare noi stessi, e per farlo è necessario primariamente accorgersi di lui, guarendo dalla plant blindness che ci ha già contagiato.

Il mirmecologo (Ajad Noor, Italia, 2024)

La paura e l’allegria scaturita dalla risata sono due emozioni “di pancia”. Entrambe, infatti, nonostante siano piuttosto differenti tra loro, coinvolgono sensazioni localizzabili nel ventre e sono molto attivanti neurofisiologicamente.
Lo sanno bene gli autori dell’horror comedy, sottogenere che fonde elementi classici del cinema dell’orrore con quelli della commedia nera. Tra le opere di questo tipo ricordo cult come Splatters di Peter Jackson e Shaun Of The Dead di Edgar Wright. Ma anche un classico come Child’s Play (La bambola assassina) di
Tom Holland e il Drag Me To Hell di Sam Raimi (che dà il nome al nostro festival) contengono elementi comici che li rendono, oltre che inquietanti, anche terribilmente divertenti.
Un autore come Jordan Peele è riuscito sapientemente a passare dal mondo della comicità (spassosissimi gli sketch assieme a Keegan-Michael Key nel programma Key & Peele) a quello dell’horror senza perdere un briciolo del suo carisma. Anzi, la sua fortunata incursione nell’horror sociale riesce a brillare così intensamente forse proprio per lo stile derivante dalla comicità che, estremizzando le
situazioni, riesce a mostrare più nitidamente l’assurdità del reale.
Ajad Noor con Il mirmecologo porta avanti questa tradizione, ponendoci di fronte a un killer vegetariano (lo so, lo erano anche Hitler e Manson) che prova disgusto per il sangue e per il corpo umano tutto, e che quindi fatica ad uccidere un povero mirmecologo malcapitato…

Turno de noche: The Wrong Place (Juanjo Avi, Spagna, 2024)

La notte può sembrare più lunga di quello che è, quando ci si annoia. Soprattutto se fa da cornice a un turno di lavoro apparentemente infinito. Ma un incontro inaspettato può cambiare improvvisamente le cose. In Turno de noche: The Wrong Place, Juanjo Avi ci ricorda come il cinema horror possa essere incredibilmente vicino alla commedia slapstick, in cui le gag prevedono gestualità accentuate e un utilizzo preminente del linguaggio del corpo su quello verbale.

L’horror slapstick è riuscito, col tempo, a diventare un sottogenere tra i più frequentati, da Evil Dead (1981) di Sam Raimi fino alla recente saga di Terrifier diretta da Damien Leone (il primo film è del 2016), con il personaggio di Art il Clown (interpretato da David Howard Thornton) diventato istantaneamente di culto. Ma se lo “slap stick” (il “batacchio”, in italiano) derivante dalla commedia dell’arte (di solito usato da Arlecchino) è stato spesso messo in scena per colpire in modo da ottenere un effetto comico senza procurare dolore, nei territori dell’horror non è detto che il risultato sia altrettanto innocuo.

Sul sentiero delle Masche (David Chance Fragale, Italia, 2024)

Ritrovare la tradizione magica italiana può sembrare un lavoro da speleologi finché, abbagliati e ipnotizzati dalle luci e dalle ombre delle narrazioni d’oltreoceano, qualcosa non ci aiuta ad accorgerci delle nostre storie, nascoste appena sotto la superficie. L’Italia, infatti, nonostante sia anch’essa colpita dalla fede per i nuovi dèi tecnologici che sembrano governare il mondo (così ben descritti in American Gods di Neil Gaiman), pullula da nord a sud di racconti e credenze magiche. Soffiare via l’apparente strato di polvere e provare a rievocarle non è un tentativo dettato da un sentimento di tensione nazionalistica, al contrario sembra essere una necessità collettiva di riscoperta e ricongiungimento universale. Perché molte di queste storie (e dei personaggi che le abitano) hanno in sé un valore archetipico: si ritrovano, con le dovute differenze di forma, nei racconti di epoche e luoghi lontani tra loro.

Questo è il percorso che compie David Chance Fragale, accompagnato da diversi scrittori del weird, del gotico e del fantastico nostrano (come Luigi Musolino, Lucio Besana, Flavio Troisi e Francesca Tassini), attraverso il Piemonte rurale, magico, misterico e spaventoso. Sul sentiero delle Masche, streghe mutaforma che, come ci ricorda lo psicoanalista Carl G. Jung, possono rappresentare la “fantasia erotica”, “un essere malizioso che attraversa il nostro cammino metamorfosandosi e travestendosi diversamente, e che ci gioca ogni sorta di tiri, ci procura inganni, fasti e nefasti, depressioni ed estasi, affetti incontrollati, e così via.” Quello che in passato proiettavamo in figure al di fuori di noi, così, oggi continua a lavorare interiormente. Tant’è vero che la strega non ha ancora “smesso di mescolare i suoi sordidi filtri d’amore; ma il suo veleno magico si è raffinato in intrigo e autoinganno, invisibili sì ma non meno pericolosi.” (C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio).

El Padrasto (The Skin) (José Casas, Spagna, 2024)

Il terrore dell’imperfezione porta all’autodistruzione. Forse sarebbe meglio cercare di essere se stessi che tentare di raggiungere l’ideale di perfezione imposto dalla società, ovviamente a scopo di lucro. Il “mito della bellezza” – citando Naomi Wolf – propagandato dai media per finalità di marketing, si estende a moltissime aree della nostra vita, fino a diventare un sottofondo quasi invisibile che ci influenza costantemente.

E allora costantemente dovremmo farci caso, per evitare di contrarre il virus della perfezione (che, quando capiamo di non poter raggiungere, può portare ad autodistruggerci). Tema attuale anche nel panorama horror contemporaneo (basti pensare allo splendido The Substance di Coralie Fargeat), viene affrontato ne El Padrasto (The Skin) di José Casas con la pungente ironia che solo il cinema dell’orrore riesce a veicolare in maniera così impattante.

Hado (Rubi Rock, Spagna, 2024)

È possibile sfuggire al proprio fato? Se lo chiede Rubi Rock, regista di Hado, cortometraggio che mescola sapientemente alcuni temi centrali del perturbante freudiano (come la presenza del sosia e della
ripetizione continua di una stessa situazione) alla riflessione sull’esistenza.
Quello che ci accade è predeterminato? Se lo chiede anche lo psicoanalista Christopher Bollas che, nel suo mirabile Forze del destino, cerca di rispondersi distinguendo il “fato” dal “destino”. Egli parte dalla definizione del dizionario Webster, per cui il fato è “il potere che si ritiene determini il risultato degli
eventi prima che essi avvengano”, percependo poco o nessun controllo sulle situazioni. Infatti, nella letteratura classica, “il fato di solito viene annunciato da un oracolo, o dalle parole di una persona” e il destino “è determinato dalla catena degli eventi annunciati dall’oracolo. Destino, dal latino destinare, significa rendere fermo, e la parola destinazione deriva da questa radice.”

“La persona malata che viene in analisi”, scrive Bollas, “può essere descritta come una persona colpita dal fato. Cioè soffre di qualcosa che non può specificare, che ha un certo potere sulla sua vita e che riesce a interferire seriamente con la sua capacità di lavorare, di provare piacere, o di formare rapporti intimi. E potremmo dire che il sintomo classico è una specie di oracolo. (…) Ma insieme al fato, la persona porta con sé in analisi un destino che può essere solo un potenziale.”

Se il fato, quindi, è la sensazione che le cose
debbano andare in un certo modo, indipendentemente dal proprio operato, il senso del destino corrisponde a sentire di riuscire ad esprimere se stessi, direzionando attivamente la propria vita. Il percorso che ci porta ad attraversare il fato – che ci blocca nella ripetizione di situazioni (e relazioni)
dello stesso tipo – per approdare al destino può essere lungo e tortuoso, ma è necessario per arrivare a prendere in mano la propria vita, a scegliere la propria strada, quella che ci fa sentire chiaramente di essere nel posto giusto al momento giusto.

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