I tre volti della paura: la storica antologia del maestro italiano che ha resistito brillantemente allo scorrere delle decadi.
Dopo lo sfolgorante debutto col capolavoro gotico La maschera del demonio (1960), il successo dell’ottimo peplum Ercole al centro della terra (1961) e la codifica del giallo all’italiana con La ragazza che sapeva troppo (1963), il maestro Mario Bava, talento della regia e autorevolezza in fatto di effetti e fotografia, sempre nel 1963 diresse un film che ha fatto la storia dell’horror, una pellicola che ha influenzato numerosi cineasti di fama mondiale e che a distanza di più di 50 anni continua ancora a spaventare e affascinare: I tre volti della paura.
Quest’opera, realizzata con pochi spiccioli e tanta inventiva, resta uno dei migliori esempi di horror ad episodi mai concepito, riuscendo ad emergere dal marasma di prodotti simili usciti fra gli anni 60 e 70 soprattutto in Inghilterra e influendo sui classici successivi del sottogenere come il campione d’incassi Creepshow (1982) di George Romero.
Passando all’analisi del film vero e proprio, I tre volti della paura si apre con Boris Karloff (totem decaduto del cinema dell’orrore che Bava rilanciò proprio con questo lungometraggio) intento a presentare al pubblico l’opera, composta da tre segmenti di diverso genere e di qualità crescente; questa soluzione, non cosi usuale per l’epoca, introduce fin da subito lo spettatore nel clima allo stesso tempo vintage e innovativo della pellicola.
Il primo episodio, Il telefono, è un giallo all’italiana molto classico, con tutti i topoi del filone: il killer che spaventa la protagonista con telefonate minatorie; morbosità e sensualità che viaggiano sugli stessi binari; ambiguità di alcuni personaggi e nevrosi del protagonista; twist finale e ambientazione in interni opprimente. Pur essendo prevedibile agli occhi dello spettatore scafato, questo primo episodio è un validissimo saggio sul come girare un giallo alla nostra maniera, una specie di antipasto di Sei donne per l’assassino (1964) dello stesso Bava, pietra angolare dei thriller italiani che spezzò la tradizione con i titoli inglesi legati ai classici di Doyle e della Christie e che fondò in definitiva un sottogenere che conoscerà il successo mondiale con Argento e Fulci.
Il secondo spezzone di film è I Wurdalak, classico horror gotico che prende spunto da un racconto di Tolsoj. Il corto vede come protagonista Karloff stesso, padre di famiglia che torna trasformato da uno scontro con un Wurdalak straniero. Il film segue da vicino il tracciato del sottogenere gotico, riuscendo tuttavia a mantenere una freschezza invidiabile malgrado i tanti anni dall’uscita grazie a tre elementi complementari fra loro: la regia, il senso estetico di Bava e la scenografia. Il regista sanremese difatti gestisce con sapienza una storia tutto sommato prevedibile, costruendo ogni snodo narrativo nel miglior modo possibile, sfruttando a fondo tutte le risorse a disposizione. La scenografia, credibilissima e stupenda nonostante il budget risicato, ricostruisce attorno ai protagonisti una credibile zona boschiva dell’est Europa, appestata da una maledizione centenaria e avvolta da un’atmosfera tetra e mefitica. A ciò va aggiunto l’eccezionale senso estetico di Bava, che riesce a piazzare almeno 2-3 sequenze ancora oggi davvero spaventose. Infine, a chiudere un secondo episodio di eccelso livello, la prestazione di un Karloff tornato ai fasti di un tempo.
Chiude il trittico il segmento migliore del lotto, ovvero La goccia d’acqua, tipica ghost story vecchio stampo che ancora oggi non ha perso un’oncia del suo fascino. La trama vede un’infermiera trafugare dalla casa di una contessa deceduta da poco un prezioso anello. Ovviamente tale gesto non avrà conseguenze piacevoli per la giovane donna. Quest’ultimo spezzone è indubbiamente il migliore dei tre: pur seguendo canovacci già solcati già al periodo, La goccia d’acqua è un’opera terrificante, capace di perturbare generazioni di spettatori e registi nella sua fantastica semplicità. Spicca naturalmente il tremendo spettro della defunta contessa, ma è proprio l’atmosfera funerea e sinistra che angoscia e dà quel tocco in più alla vicenda, senza dimenticare i numerosi dettagli disseminati da Bava all’interno della magione spettrale dell’anziana trapassata o l’oscurità che avviluppa la casa dell’infermiera oramai colpita dalla maledizione. Anche a questo giro ci sono almeno 3 sequenze di grande impatto, riprese e citate anche da registi come Landis o Raimi. Infine, non è sottovalutare la critica sociale intrinseca alla storia, che esplica il pensiero di Bava su determinate tematiche.
In conclusione, I tre volti della paura è un caposaldo delle antologie horror nonché del dell’horror in generale. Un titolo imperdibile, ancora oggi attuale e da recuperare ad ogni costo per qualsiasi amante del cinema fantastico. Con questo suo lavoro Bava conferma un talento smisurato e una versatilità non comune, l’ennesimo tassello di una filmografia quanto mai attuale.
Due curiosità finali: a fine visione, c’è una squisita chicca metacinematografica che svela l’inganno del cinema 50 anni prima gli extra degli odierni supporti digitali. Infine, il titolo americano del film è Black sabbath, che funse da ispirazione a Ozzy e Tony Iommi per il nome della loro nascente band: i Black Sabbath.
Titolo: I tre volti della paura
Titolo originale: I tre volti della paura
Regia: Mario Bava
Attori: Michèle Mercier, Lidia Alfonsi, Boris Karloff
Genere: Horror
Durata: 92 min
Anno: 1963
Paese: Italia, Francia
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