Dopo Gus Van Sant, anche Zada prova ad attraversare la foresta dei suicidi. La recensione di Jukai – La foresta dei suicidi.
Ci aveva provato anche Gus Van Sant nel suo ultimo film – La foresta dei sogni (2015) – ad utilizzare la magia nera di uno dei posti più affascinanti al mondo: la foresta di Aokigahara, situata alle pendici del Monte Fuji. Van Sant affidava al talento indiscusso di Matthew McConaughey e Naomi Watts l’arduo compito di partire da quella location per intrapprendere un percorso spirituale di abbandono della vita terrena.
Perché proprio quella foresta? Ne avrete di certo sentito parlare in quanto famosa poiché teatro di numerosi suicidi, nonostante la presenza di cartelli che invitano le persone a riconsiderare le proprie intenzioni. Jukai – questo il nome giapponese, letteralmente “mare di alberi” – deve la sua notorietà al romanzo del 1960 Nami no tō, di Seichō Matsumoto, anche se pare che i suicidi siano cominciati già dal XIX secolo, quando le persone anziane andavano a morire nella foresta per trasformarsi in yūrei (“spiriti arrabbiati”), che ancora si dice infestino l’area.
Il regista Jason Zada utilizza quella distesa nera di alberi, per dirigere il suo recentissimo Jukai – La foresta dei suicidi (The Forest, 2016). Ad addentrarsi tra gli arbusti maledetti questa volta è Natalie Dormer, nei panni di Sara, che parte in Giappone alla ricerca della sorella gemella scomparsa durante una gita proprio nei dintorni di Aokigahara. Il rapporto gemellare tra le due (interpretate entrambe dalla Dormer) fa sì che Sara avverta una strana sensazione, decidendo così di mettersi su i suoi passi e sicura di poterla ritrovare viva. Ad accompagnarla nella ricerca c’è un ragazzo americano conosciuto sul posto (Taylor Kinney) che le procura una guida locale esperta della foresta.
Il tentativo di Zada è quello di sfruttare l’onda orrorifica offerta dal luogo, in grado – a quanto raccontano le leggende – di infiltrarsi nelle paure, nelle debolezze delle persone per condizionare non solo il loro stato d’animo, ma anche e soprattutto per procurare allucinazioni di morte. Visioni terribili che si insinueranno nella mente della protagonista instillandole il sospetto rispetto alle intenzioni benevole del suo accompagnatore occasionale; meccanismo – questo – che sarà indispensabile sul piano narrativo.
Infatti, nonostante Zada utilizzi in modo discreto la cinepresa – coadiuvato dalla buona fotografia di Mattias Troelstrup – realizzando un prodotto asciutto ma al contempo d’atmosfera, quel che manca al suo lavoro è proprio la presenza di una concatenazione di eventi che giustifichi l’attenzione dello spettatore. A risentirne è soprattutto il ritmo del film, che per buona parte gira a vuoto, presentandoci in maniera solo superficiale quel che rende Aokigahara davvero inquietante: i corpi delle persone appese ai suoi alberi.
Anche l’incontro/scontro tra le due dimensioni culturali – occidentale ed orientale – è solamente accennata, nonostante il potenziale attrattivo della selva affondi le sue radici proprio nell’intreccio tra l’aspetto religioso e quello leggendario che la contraddistingue. A conferma di ciò, basti pensare che le autorità giapponesi hanno vietato di effettuare le riprese in loco, nel rispetto di quegli spazi e delle vittime suicide, tanto da costringere i produttori del film a dover girare in Serbia.
Jukai è in definitiva un prodotto derivativo, in quanto capace in parte di attingere dall’estetica dei più famosi J-Horror d’import – The Ring (2002) e The Grudge (2004) in primis – ma senza assicurare allo stesso modo uno script denso o originale che ne scandisca il ritmo. Uno spazio di perdizione, al confine tra la vita e la morte, Aokigahara, che sembra non voglia o non possa essere raccontato in alcun modo. Nel rispetto, soprattutto, della solitudine di chi va a morire tra i suoi arbusti.
Titolo: Jukai – La foresta dei suicidi
Titolo Originale: The Forrest
Regia: Jason Zada
Attori: Natalie Dormer, Taylor Kinney, Eoin Macken, Stephanie Vogt
Genere: Horror
Durata: 93 minuti
Anno: 2016
Paese: Stati Uniti
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