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La maschera di Frankenstein – Recensione

La maschera di Frankenstein - Recensione
La maschera di Frankenstein - Recensione

La maschera di Frankenstein, segnò l’inizio della fortunata epopea Hammer e ridiede lustro ai mostri classici della Universal.

La maschera di Frankenstein (1957), insieme a Dracula il vampiro dell’anno seguente, è senza ombra di dubbio il film che ha dato il via al grandissimo successo della casa di produzione britannica Hammer, inaugurando un periodo floridissimo per il cinema di genere europeo, contraddistinto proprio dalle serie horror della macchina cinematografica inglese.

Uscito fra mille polemiche e veleni, con la Universal che negò qualsiasi cessione dei diritti dei vecchi film sul mostro usciti negli anni 30 e la censura che proprio con il lavoro di Terence Fisher inaugurò la classificazione censoria X per via di numerose scene forti considerato il periodo, l’opera sbancò ai botteghini e riuscì ad ottenere  un immenso successo di pubblico, che tornò ad interessarsi al gotico dopo il declino del sottogenere avvenuto a metà anni 40. L’incredibile riscontro della pellicola riportò a nuova vita i cosiddetti “mostri” del cinema classico, finiti nel dimenticatoio dopo i fasti degli anni 30 e riportati in auge grazie alle saghe Hammer, capitanate proprio da La maschera di Frankenstein e dal Dracula di Lee e Fisher.

La maschera di Frankenstein, diretto appunto dal bravo Fisher (regista che ha indissolubilmente legato il suo nome alla Hammer) e interpretato da un luciferino Peter Cushing nel ruolo del barone e appunto Lee che dà volto e fattezze alla creatura, si discosta notevolmente dal film di Whale (pur essendone un remake) e dal libro di Mary Shelley, assestandosi come punto di riferimento a se stante nel cinema fantastico non legato a questa o quella opera precedente.

Difatti il lungometraggio di Fisher ripesca alcuni elementi dal caposaldo del 1931 e dal romanzo ma li riutilizza in modo differente aggiungendoci svariati fattori totalmente inediti per un prodotto che si posiziona a metà fra la tradizione e la voglia di innovazione.

La storia riprende a grandi linee quella originale, mettendo al centro di tutte le vicende il barone Frankenstein, qui assoluto protagonista senza scrupoli, disposto a tutto pur di portare a compimento il suo delirante proposito. Il barone di Cushing è un un essere amorale in bilico fra lucida cattiveria e follia senza freni, che travolge con esiti nefasti tutto ciò che incontra, creatura compresa. Proprio la creatura, perno principale della trama di Whale, qui viene messa sullo sfondo, quasi un elemento di contorto posto come iperbole della pazzia del barone mattatore; anche rispetto alla creatura del romanzo, il mostro di Lee è quantomai diverso: il primo, colto ed intelligente, funge da geniale metafora socio-filosofica; mentre il secondo è una mera creazione da laboratorio mal riuscita, mosso dagli istinti più primitivi e da un cervello difettoso e danneggiato. Nonostante il ruolo dell’essere sia molto ridimensionato, la presenza scenica di Lee, il buon make up e la bravura di Fisher nel mostrare nei momenti più opportuni il morto vivente rendono ogni apparizione di quest’ultimo di grande impatto, con almeno due-tre sequenze ancora oggi capaci di regalare qualche brivido.

La maschera di Frankenstein è diventato celebre anche per motivi tecnici e scenografici: il titolo è uno dei primi horror a colori, nonché uno dei primi esempi di lavori con molteplici componenti splatter, fra arti mozzati, sangue in quantità e resti umani in decomposizione. Ovviamente nulla di scioccante rivisto oggi, ma per l’epoca un prodotto del genere era certamente una irruenta novità. Inoltre, le scenografie gotiche brillano in tutto il loro splendore, strizzando l’occhio ai topoi del filone non dimenticando qualche puntina d’innovazione, per un mix molto atipico ma di tremenda efficacia e attrattiva.

Proprio la prova del tempo ha consacrato l’opera in tutto il suo immutabile fascino: ancora oggi la pellicola è godibile e fruibile, pur avendo perso qualche punto per quanto concerne la paura. Permangono alcune situazioni ingessate e l’azione non è certamente rocambolesca (parliamo sempre di un lungometraggio d’altri tempi, uscito ben 60 anni fa), ma la costruzione dei personaggi, la potenza delle ambientazioni in interni iper-dettagliate e le qualità di attori e regista ci consegnano l’incanto di un prodotto senza età da recuperare assolutamente malgrado qualche acciacco di vecchiaia.

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