Dal 26 al 28 maggio scorsi si è tenuto a Bologna il “Nippop 2017: La belva nell’ombra, variazioni pop dal mostruoso“. Per tutte le 3 giornate si sono alternate conferenze, workshop e proiezioni; in più è stata allestita un’area game (sia per videogiochi che per giochi da tavolo) ed è stata effettuato un contest per cosplayers. Abbiamo seguito il festival per tutte e tre le giornate, dato che il tema di quest’anno era “il mostruoso“. Non propriamente l’horror quindi, ma tra i vari argomenti trattati l’orrore non è di certo mancato.
Partiamo ad esempio da una conferenza del primo giorno: “Letteratura gotica mitteleuropea e nordamericana nel cinema giapponese di fantascienza“, a cura di Gianluca di Fratta.

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Nel corso di questo incontro di Fratta (che si occupa di storia e cultura del fumetto e cinema di animazione giapponese; su cui ha scritto saggi e articoli in riviste scientifiche e in volumi accademici) ha messo in relazione gli archetipi del cinema horror con gli anime di fantascienza. Qui elementi classici della letteratura gotica vengono reinterpretati e sfruttati per creare nuove storie. Ad esempio la figura del “vampiro” mantiene le sue caratteristiche visuali, ma si presta a mille rivisitazioni, fino a diventare un robot in “Doraemon”.

L’elemento religioso invece diventa solitamente dissacrante, prendiamo per esempio la figura del Generale Flora, che risorge; negli anime come nei classici gotici “il castello” è rifugio o centro nevralgico del “signore” (la base volante di Mazinga ad esempio ha questa forma). Molto utilizzata è anche la figura della “strega“, sia vista come donna bellissima, che come vecchia (o entrambe, come la Marchesa Yanus sempre di Mazinga). Anche i “mostri classici” trovano posto negli anime, da Frankenstein a Dracula, dalla Mummia al Mostro della Laguna nera sono tutti presenti, anche se di solito mantengono intatte solo le caratteristiche visuali e non le altre. Spesso perdono anche gli stilemi orrorifici per rimanere puri elementi decorativi.

Altro incontro decisamente interessante è stato “Godzilla, quando il mostro evade dai confini“, a cura di Gino Scatasta, Luigi Cozzi e Carlo Cavazzoni.

In occasione dell’uscita del nuovo film di Godzilla, “Shin Godzilla” (Hideaki Anno, 2017), il professor Scatasta del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne di Bologna; il regista Luigi Cozzi (“Blood on Meliès moon”, “Paganini horror”, “Alien: contamination”) e Carlo Cavazzoni (direttore esecutivo della Dynit, casa editrice italiana di anime e manga) hanno analizzato la figura di questo mostro orientale.

Per primo Scatasta ha affermato come Godzilla sia un “contenitore vuoto” che viene man mano ricontestualizzato. Nasce infatti in Giappone come simbolo del pericolo atomico, ma non poteva fare paura in America nello stesso modo.
A questo proposito è intervenuto Cozzi, che ha spiegato come esista una seconda versione del Godzilla originale (Ishiro Honda, 1954) rimontata in America. In questo girato sono state inserite nuove scene girate negli Stati Uniti e la voce fuori campo di un giornalista occidentale. Questa versione fu l’unica a circolare anche in Italia fino agli anni ’90 (Cozzi ha invece tentato di ridistribuire l’originale).

Anche Cavazzoni ha parlato del cambiamento di Godzilla, che sarà protagonista di un reboot, non di un remake. Il mostro questa volta viene usato dal regista (conosciuto soprattutto per l’anime Neon Genesis Evangelion) come mezzo per parlare della catastrofe di Fukushima e della capacità del Giappone di risorgere sempre dalle proprie ceneri. Il vero protagonista non è Godzilla ma il popolo giapponese. “Shin Godzilla” avrà una “distribuzione ad evento” il 3-4-5 luglio, e chi era presente alla conferenza ha potuto vedere in anteprima i trailer italiani del film. In effetti il mostro si intravede solo di sfuggita, surclassato dalle immagini di persone che formano una moltitudine priva di eroi ma colma di coraggio.

Non poteva mancare all’interno del Nippop un incontro a tema J-horror: “J-horror: il cinema horror giapponese tra paura e entertainment“.

Hanno partecipato alla tavola rotonda Giampiero Raganelli (giornalista, critico cinematografico e teatrale), Giacomo Calorio (dottorando in Digital Humanities presso l’Università di Genova, si occupa prevalentemente di cinema giapponese e ha al suo attivo alcune monografie) e Antonio Tentori (sceneggiatore che ha collaborato, tra gli altri, con Lucio Fulci e Aristide Massaccesi). Il primo a prendere la parola è stato Calorio, che ha fatto una breve panoramica sul J-horror, analizzando come il genere sia nato tra produzioni televisive e/o a basso costo, fino ad avere un boom dagli anni ’90 fino a circa il 2005. In questo periodo molti registi sono stati alla ribalta: Hideo Nakata, Kaneto Shindo, Takashi Miike, Sion Sono, Ataru Oikawa solo per citare i più famosi. La “J-mania” è partita dall’inizio degli anni ’90, quando con i nuovi supporti digitali è stata possibile una diffusione capillare, anche se illegale, di questi film. Gli elementi fondamentali di questo genere sono l’ambientazione contemporanea e il fatto di essere film d’atmosfera. Lo shock rapido infatti non è molto praticato, si raggiunge il terrore passando per immagini quasi statiche e apparizioni che a volte non agiscono nemmeno. Un altro elemento analizzato è la figura della “madre” nei J-horror. Tutti e tre i partecipanti hanno riportato esempi in questo senso. Uno è “Sweet home” (1989) di Kiyoshi Kurosawa, dove troviamo sia la figura della madre spettrale che quella di una madre viva e positiva. Anche in “Dark water” (Hideo Nakata, 2002) è presente una figura materna positiva, che si fa carico tanto di sua figlia quanto della bambina fantasma. Anche andando indietro nel tempo troviamo degli esempi, come “Onibaba” (Kaneto Shindo, 1964), film in cui vediamo anche come a volte il cinema si ricolleghi al teatro No (maschere). L’elemento materno si collega anche con l’elemento perturbante, che è molto sfruttato: basta pensare al bambino che si insinua sotto le coperte di “Ju-on” (Takashi Shimizu, 2004). Raganelli e Calorio sono concordi nell’affermare che il “J-horror” sia un genere ormai in declino, o addirittura finito. I tentativi di rilanciare il filone per l’occidente, ad esempio con “Sadako vs Kayako“, sono al limite dell’imbarazzante.

L’intervento di Tentori invece si è soffermato sui punti di contatto tra il J-horror e l’horror italiano. Lo sceneggiatore ritiene che la figura della “donna-mostro” (sia nel senso etimologico che nel senso di creatura) sia comune tanto all’Oriente quanto a maestri nostrani come Riccardo Freda o Mario Bava (prende come esempio “La maschera del demonio”, 1960). Altri punti di contatto sarebbero la visionarietà di molti registi, l’elemento dell’acqua, che Tentori collega alla produzione di Dario Argento, così come l’elemento della “famiglia degenere”. Sinceramente trovo un po’ stiracchiati questi punti di contatto, dal momento che certi archetipi possono essere comuni alla produzione horror mondiale, e non solo a due culture specifiche. In ogni caso questo può essere uno spunto di riflessione per allargare i propri orizzonti.

Forse uno dei più curiosi interventi di questo Nippop è stato “Lovecraft e il Giappone: fra manga letteratura e cinema“, a cura di Antonio Tentori, Giacomo Calorio, Riccardo Rosati, Gino Scatasta e Jacopo Costa Buranelli (direttore editoriale della casa editrice J-POP).

In realtà la tavola rotonda ha avuto prevalentemente Lovecraft come argomento, e alcuni dei partecipanti si sono soffermati su i suoi legami con il mondo orientale.
Scatasta ad esempio si è soffermato su quanto il Solitario di Providence sia riuscito a creare un immaginario tanto complesso da interessare moltissimi settori, vista la paura che riesce a creare. Ha parlato anche della cosmogonia lovecraftiana, fatta di dei idioti e cattivi, che ciclicamente si risvegliano e attaccano l’umanità.

Tentori ha parlato in generale del rapporto tra Lovecraft e il cinema, partendo da “La città dei mostri” di Roger Corman, film del 1961 ispirato ai racconti “La maschera di Innsmouth” e “Il caso di Charles Dexter Ward”. Ha poi proseguito fino ad arrivare agli anni ’80, con i film del duo Brian Yuzna e Stuart Gordon, affermando come sia Gordon ad essere riuscito a carpire meglio lo spirito dei racconti di Lovecraft, citando come esempio il film “Re-animator” con Jeffrey Combs del 1985. Ha citato ovviamente anche John Carpenter e il suo “Seme della follia” (1994), probabilmente il migliore in assoluto tra le pellicole che riprendono lo scrittore.

Calorio si è soffermato di più sulla ricerca di punti di contatto tra il Solitario e il J-horror, sottolienando che si possono ritrovare suggestioni o vere e proprie citazioni. Esistono ad esempio alcune trasposizioni, più o meno fedeli, oppure delle citazioni. Nel film “Ghost train“, del 2006, troviamo ad esempio la Miskatonic University; in “Marebito” (2004) sono presenti creature simili ai Grandi Antichi. In generale poi nei racconti come nei film horror giapponesi prevalgono la propensione per il non-visto e il non-detto e la presenza di protagonisti inaffidabili, destinati sempre ad impazzire.

Troviamo anche trasposizioni nei manga, e ce ne ha parlato Costa Buranelli, citando la produzione di Gou Tanabe. A partire dal 2007, con “The outsider“, questo autore ha iniziato la trasposizione a fumetti di alcuni racconti di Lovecraft utilizzando uno stile decisamente anti manga, molto più simile allo stile Bonelli (ad esempio un fumetto come Dylan Dog). L’intento di Tanabe non è né di citare, né di trasporre fedelmente, ma è quello di “essere Lovecraft”, in modo che il suo manga sia il più fedele possibile all’ideologia e allo spirito dello scrittore. Questi manga sono pubblicati in Italia da J-POP.

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