Il bambolotto è tornato! La recensione di The Boy – La maledizione di Brahams

The Boy – La maledizione di Brahms
The Boy – La maledizione di Brahms

The Boy – La maledizione di Brahms, seguito di The Boy (2016), vede il ritorno alla regia di William Brent Bell, e lo sceneggiatore Stacey Menear, autore del primo copione. 
Il capitolo iniziale di quella che minaccia di diventare una saga alla Annabelle, era una storia di spettri che via via progrediva verso un contesto più reale e slasher, mentre in questo seguito, ricco di colpi di scena più o meno sorprendenti, Bell e Menear esplorano di più le potenzialità metafisiche e infestanti del pupazzo Brahms. La maledizione del titolo sembra infatti condurre agli scampoli disincarnanti di certi capitoli minori della saga di Michael Myers ma con esiti decisamente migliori per quanto riguarda il secondo The Boy.

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Sono I traumi e la violenza a condurre i poveri sventurati a Glennview Estate; castello fiabesco pieno di leggende e ricordi sgradevoli. Come Greta (Lauren Cohan) nel primo episodio, Liza e la sua famiglia ci finiscono sospinti dalla paura e dal dolore. 

Si imbattono nel maniero al culmine di una passeggiata ricreativa, appena giunti nella casa di campagna dove vorrebbero risolvere conflitti e sciogliere nodi emotivi. Non occorre una gran malizia cinefila per immaginare che se qualcosa riusciranno a risolvere non sarà leggendo in panciolle il tascabile “Safety In Self” davanti a un camino scoppiettante o sonnecchiando sotto un pino in ascolto degli uccellini nella foresta. Dovranno affrontare il mistero di Gleenview, il triste destino dei coniugi Heelshire e soprattutto misurarsi con la sinistra storia del piccolo Brahms. Forse dopo, se saranno tutti vivi, potranno raccogliere i pezzi, rimetterli insieme, sperando che non manchi nulla.

Il film comincia con dei ladri in casa, una colluttazione e un grosso spavento da cui madre e figlio, trovatisi soli in balia di un’invasione domestica ne escono vivi ma profondamente segnati. Nonostante le cure da una psicologa per cinque mesi, Jude (Christopher Convery) così si chiama il ragazzino, rifiuta di parlare dopo la fatidica nottata. A quel punto non sembra esserci niente di meglio che una vacanza per sciogliere un po’ non solo la lingua del piccolo ma i nervi di sua madre e di suo padre. 

La psicologa è però molto chiara: Jude non può guarire dal trauma se i genitori non risolvono anche i loro di traumi. Il marito (Owain Yeoman) è d’accordo con la dottoressa ma solo in parte: per lui è la moglie che sta veramente male. La donna è mangiata viva dagli incubi ma focalizza ogni attenzione e preoccupazione sul figlio, come se non ci fosse altro da aggiustare. L’uomo vorrebbe spingerla a guardarsi allo specchio, ma ogni tentativo di comunicazione un po’ più schietto è negato da Liza, che in fondo colpevolizza il marito nel profondo per essere stato assente al momento di difendere il nido.

Liza ha il volto un po’ provato di Katie Holmes, eclissatasi sul più bello della carriera a sei cifre (Batman Begins è del 2005) per un matrimonio molto discusso e dai risvolti controversi con lo “scientologo” Tom Cruise. Dal 2013 la donna è tornata a un nuovo percorso artistico assai più modesto, ma si ritiene felice perché sente di essere di nuovo immersa in un’esistenza più normale, fiera di aver “salvato” la figlia avuta con Tom, Suri, dalla setta e da un’attenzione mediatica insopportabile.

Kate e il personaggio di Liza sembrano avere tante cose in comune. Entrambe sono delle sopravvissute e tutte e due sanno cosa significhi dover difendere il proprio figlio da un mondo ostile mentre il marito è spesso lontano e quando c’è, accusa e giudica, senza provare a comprendere i timori e rispettare le fragilità di una madre. La Holmes non è la prima volta che si cimenta con un horror. Nel 2010 interpretò il remake di Non avere paura del buio prodotto da Del Toro. Lì si muoveva in circostanze narrative simili: salvare una bambina dagli incubi mentre il papà di lei era distratto e lontano, ma non era il ruolo di una madre vera e propria. In quel caso era l’amica del papà della bimba, una sorta di matrigna buona. Qui invece è mamma dai riflessi ambigui, sola e instabile mentre tenta di portare in salvo un figlio “vampirizzato” da un bambolotto.  

È sempre più ricorrente negli horror la funzione di terapia d’urto. I personaggi, al contrario di ciò che avveniva in molti lavori degli anni 70, che da uno stato di tranquillità ed equilibrio finivano nelle grinfie di maniaci mascherati e case diaboliche, oggi sono già stati malmenati dal mondo e dagli uomini prima che incontrino i mostri. L’irruzione del fantastico nell’horror moderno ha spesso una funzione salvifica, liberatrice e in fondo benefica. I protagonisti sono già distrutti dalla vita, un giro nel tunnel dell’orrore non può che rigenerarli, tagliando via (si fa per dire, più o meno) rami secchi e bulbi cancrenosi. Certo, qualcuno è sminuzzato un po’ troppo dalla forbice dell’horror ma chi ha la fortuna di sopravvivere, invece di ridursi come Sue Snell nel finale di Carrie a sognare zombie, uscirà dalla casa dei fantasmi con una nuova consapevolezza che probabilmente l’aiuterà a farsi valere nel crudele mondo là fuori, molto meglio delle frustranti sedute dal terapista o degli psicofarmaci inibenti che la società offre a chi vuol riabilitarsi dopo che la società stessa ha lasciato che i mostri umani lo stuprino e che vandalizzino i suoi cari.

Inevitabile prendere l’attacco in seno alla propria sfera più intima come un tradimento della tribù. Viviamo insieme ai nostri simili e rispettiamo delle regole per poterci sentire in salvo, ma quando finiamo nelle grinfie di chi dovrebbe vivere con noi in pace e nell’osservanza di quelle stesse regole, e poi nessuno ci aiuta e ci difende, ci sentiamo abbandonati e ingannati. Da quel punto è comprensibile che si guardi oltre la società in cui si vive, che si spinga lo sguardo verso l’oscurità del bosco fuori, pensando che magari nel mondo civile c’è più oscurità e più pericolo che tra le ombre della foresta da cui siamo sempre stati alla larga. 

La fragilità nervosa è come la chiave in grado di aprire la porta del cuore e permettere ai demoni di irrompervi. La sofferenza personale con cui Greta, nel primo The Boy, si presenta nella casa di Brahms, la aiuta non solo a diventare la valente baby-sitter di un bambolotto ma anche a percepire gli elementi soprannaturali intorno a esso, illudendosi prima di riconciliarsi con la propria perdita e poi uccidendo il demone infante tornato a punirla e portarla via con sé. Sconfiggendo Brahms, Greta non fa che liberarsi del senso di colpa e ricominciare finalmente a vivere. Liza non ha che da tentare il medesimo cammino. 

Il punto non è se questa stregoneria sia vera o meno ma la condizione psicologica della protagonista, in grado di immaginarla e darle potere di realtà. Liza “sente” qualcosa di insolito intorno al pupazzo trovato dal figlio nel bosco di Gleenview. All’inizio spera che questo giocattolo fortuito possa essere un “aiuto dal cielo” per la sua famiglia. La presenza del fantoccio sembra far bene al piccolo Jude: non parla ancora ma sorride di nuovo dopo tanto tempo, è già un passo avanti. 

Il vampirismo di Brahms inizia a far danni nel momento simbolico che spinge la madre traumatizzata ad “adottarlo”, con un vero e proprio transfert animistico. È una scena emblematica, da commisurare al primo morso di un vampiro ai danni della vittima designata alla dannazione eterna. Nel primo The Boy, Greta inizia a sentirsi complice di Brahms quando lui mostra di voler giocare a nascondino con le sue scarpe e lei finalmente risponde all’invito al gioco. Non è un caso che in The Boy – La maledizione di Brahms, proprio il nascondino sia il gioco che avvicina di più Liza al figlio.

E sempre nel secondo capitolo, quando lei pulisce il bambolotto dalla terra e dalle foglie secche, si nota in Liza una cura materna dolce e un po’ disperata. La donna trasloca la sua “pranoterapia” dal bambino vero, muto e anaffettivo, ridotto quasi a un fantoccio e nei confronti del quale lei si sente responsabile e impotente, al simulacro infantile, apparentemente controllabile e innocuo. Brahms suscita inizialmente speranza in chi dovrebbe temerlo. Sempre. 

È interessante notare in The Boy – La maledizione di Brahms, come la presenza di un pupazzo possa diventare la ghiotta opportunità per una famiglia in crisi, di materializzare le proprie colpe in un oggetto e difendersi da esso, cercando prima di liberarsene senza riuscirci e razionalizzando le prove della sua vitalità scaricandosi a vicenda la responsabilità di una folle manipolazione vicendevole. Alla fine però, c’è poco da fare, i protagonisti devono smetterla di accusarsi e affrontare in un corpo a corpo il piccolo totem del dolore e della paura; così da sconfiggerlo e annientarlo in una specie di rituale distruttivo alla fiamma salvifica.   

Titolo: The Boy – La maledizione di Brahms
Titolo originale: Brahms: The Boy II
Regia
: William Brent Bell
Attori: Katie HolmesChristopher ConveryOwain Yeoman 
Genere: Horror
Durata: 86 minuti
Anno: 2020
Paese: USA

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