The Neon Demon: l’estasi estetica di Nicolas Winding Refn tra necrofilia e violente luci al neon.
Il fischio borghese di Cannes è ormai diventato simbolo e parodia di se stesso, andando ad annichilire l’unico senso che il sistema del festival deve avere, che non è quello del mero premio, ma quello del portare alla conoscenza del pubblico un’Opera. Fischiare “The Neon Demon” è come scatarrare su un Caravaggio, puoi non apprezzarne i contenuti o non essere d’accordo sul modo di rappresentare, ma è davvero impossibile non riconoscerne la magniloquenza visiva. Conscio del fatto che la bellezza universale sia assoluta utopia diventa comunque scandaloso non riuscire a cogliere la perfetta armonia nelle immagini di Nicolas Winding Refn, un’armonia incredibilmente moderna e contemporanea, fascinazione e al tempo stesso distruzione della bellezza metropolitana del mondo della moda. Il regista danese questa volta colloca il proprio Cinema nel mondo glitterato e fashion di Los Angeles, raccontandoci la storia di Jesse (Elle Fanning), una sedicenne che, a sua detta non ha altre qualità se non la sua candida bellezza e che entra prepotentemente in questo sistema, scatenando le ire e gli amori delle colleghe. Se conoscete un minimo Nicolas avrete già intuito che questo plot piuttosto banale non è altro che una scusa per mostrarci molto di più, prendendo come esempio lo stile di una qualsivoglia pubblicità di un profumo e aggiungendoci necrofilia e cannibalismo.
L’esaltazione innata del bello, talmente insita e violenta nell’uomo che lo porta alla distruzione e all’autodistruzione, il mondo della moda ne è la perfetta e concreta concettualizzazione odierna, un sistema che ingloba e ricicla individui come fossero cartonati di tetrapak. Refn, proprio come ogni essere umano, è diviso tra la celebrazione e la critica all’estetica, mostrandoci il triangolo di Platone per onorare la perfezione pitagorica enunciata dal filosofo ma usandolo anche come demone scatenante di violenza e distruzione, se per Platone la bellezza era collegata al “buono”, qui si va decisamente nella direzione opposta da metà film in poi. Un dualismo, quello di cui vi sto parlando, inscindibile come l’eros e il thanatos freudiani, presente anche questo in maniera importante nella pellicola, come in tutte le opere dell’eccesso che riescono a raggiungere una potenza comunicativa così vivida e penetrante. Il triangolo è anche simbolo di femminilità, una femminilità imposta socialmente, così come lo era la mascolinità vendicativa in “Solo Dio Perdona”, il film precedente di Refn, tanto che le due opere formano un dittico ideale sulla relegazione di genere. L’influenza del pensiero classico non la vediamo solo nella simbologia, ma anche nella storia, che per certi versi è simile al mito di Pandora, la donna modellata da Efesto e adornata da Atena con vestiti d’argento (d’oro in questo caso, in una scena del film) che poi cadrà vittima della sua stessa curiosità e della sua stessa falsità e aprirà il vaso con tutti i mali del mondo.
Come facilmente si può intuire il film tecnicamente è una meraviglia in tutto e per tutto, dalle perfette simmetrie all’uso della luce, del neon più precisamente, che nel cinema del cineasta danese serve per evidenziare la violenza della metropoli, la fascinazione che il moderno riesce ad avere sul popolo e, in questo caso, anche su di noi, che guardiamo ammaliati i perfetti ritratti del film, talvolta simili alle folgoranti rappresentazioni fotografiche di Gérard Rancinan. La musica, forse più leggiadra e meno invadente che nel resto della filmografia del regista, è ovviamente fondamentale e accompagna sempre in maniera perfetta le immagini, con la sua anima elettronica lontana dal Kavinsky di “Drive” ma egualmente efficace. Quello che potrebbe far storcere un po’ il naso sono i dialoghi, praticamente vuoti, ma di un vuoto incredibilmente coerente con il mondo che Nicolas ha deciso di raccontarci, un vuoto di distaccate riflessioni e di distaccate relazioni uomo-uomo che diventano uomo-oggetto e addirittura oggetto-oggetto. La recitazione è connessa a questo aspetto, le modelle sono manichini che parlano, fotografi e stylist sono stronzi che parlano, mentre Elle Fanning si distanzia da tutto ciò anche nella performance attoriale, una famiglia di giovani portenti insomma. Keanu Reeves nel suo ruolo marginale di burbero proprietario di un motel (poteva essere chiunque) riesce ad essere una simpatica ed interessante macchietta (più drammatica che comica). Come per stessa ammissione di Refn, il film è ispirato, soprattutto per quanto riguarda la parte visiva, ad alcuni classici del passato come “Suspiria” di Dario Argento nell’uso invadente della monocromia, allo “Shining” di Stanley Kubrick nella simmetrica e sanguinolenta concezione di sobria violenza, a quel capolavoro misconosciuto di “Kwaidan” di Masaki Kobayashi nell’eterea rappresentazione demoniaca, nonché nella ripetizione di alcuni elementi della scenografia. Tre nomi proprio da niente, insomma.
In conclusione “The Neon Demon” è un film eccezionale nella forma, già visto nel contenuto, ma non è importante: il saper estetizzare in maniera nuova un concetto già trito e ritrito è una qualità infinita che Refn ha sempre posseduto, basta guardare film come “Bronson”, “Drive” o la trilogia “The Pusher” per capirlo.
…e chi non ha apprezzato quest’opera è probabilmente lo stesso mentecatto che ha criticato quel capolavoro di “Solo Dio Perdona”.
Titolo: The Neon Demon
Titolo originale: The Neon Demon
Regia: Nicolas Winding Refn
Attori: Elle Fanning, Keanu Reeves, Abbey Lee, Christina Hendricks
Genere: horror, drammatico
Durata: 117 minuti
Paese: Francia, USA, Danimarca
Anno: 2016